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Daniele Mencarelli racconta Fame d’aria

Daniele Mencarelli racconta Fame d’aria

Daniele Mencarelli è uno degli scrittori italiani contemporanei più apprezzati; vincitore del Premio Strega Giovani nel 2020 con il romanzo autobiografico Tutto chiede salvezza, ha da poco pubblicato il libro Fame d’aria

Nato nel 1971, Mencarelli ha esordito come poeta negli anni ‘90, raccontando in versi la sua esperienza di lavoro a contatto con i bambini del reparto di neuropsichiatria infantile di un ospedale romano; questo tema è stato anche al centro del suo primo romanzo, La casa degli sguardi, con cui si apre la cosiddetta “trilogia autobiografica” dell’autore, composta anche dal già citato Tutto chiede salvezza e il successivo Sempre tornare

La casa degli sguardi
Tutto chiede salvezza
Sempre tornare

Tutti e tre i libri dell’autore sono stati accolti da un grande successo di critica e di pubblico e hanno fatto vincere a Mencarelli numerosi premi; la serie Netflix del 2022 Tutto chiede salvezza, tratta dall’omonimo romanzo, ha contribuito ad accrescere la notorietà di uno scrittore che ha la capacità di raccontare con forza le emozioni umane, anche e soprattutto quelle più scomode o tabù. Un talento che appare sempre più chiaro in Fame d’aria, libro nel quale si narrano le vicende di un padre, Pietro, sopraffatto dalla malattia del figlio Jacopo. In viaggio insieme, i due restano bloccati in un paesino sperduto del Molise, dove verranno aiutati e accolti dagli abitanti.

Fame d'aria

Dei temi e sentimenti affrontati nel romanzo abbiamo parlato con l’autore, ospite presso lo stand di Audible durante il Salone del Libro 2023.

Intervista realizzata da Teresa Iannotta

In Fame d’aria si affronta il tema della famiglia: come mai hai scelto di occupartene? C’è un motivo particolare per cui hai scelto di essere così specifico sul rapporto padre e figlio? 

Da un lato, da sempre sono attratto dall’amore consanguineo, dall'amore verticale. Credo che una buona parte del nostro destino sia legato all’origine, a quello che ci ha generato, nel bene e nel male.

Rispetto alla famiglia, a questa figura paterna, Pietro, e al rapporto con il figlio gravemente disabile, il tema ha origine dal fatto che per diversi anni ho vissuto insieme a mia moglie e al mio primo figlio quelle grandi arene che oggi rappresentano i centri di neuropsichiatria infantile, e ho visto gli autismi da vicino. Noi abbiamo avuto una parabola più fortunata, ma questo contatto mi ha fatto rendere conto di quanto mancasse, a livello di immaginario, di contenuti, di narrazioni, un focus sulla figura paterna da un lato, che è quella che ha più difficoltà ad accettare l’autismo e i disturbi del neurosviluppo in genere, e più in generale su queste famiglie, che sono messe a durissima prova da una mancanza a livello istituzionale che è semplicemente paurosa.

In questo libro non c’è un padre eroe, c’è un padre stanco, un padre che non ce la fa più. Come è stato mettere l’accento su questo tipo di narrativa, far vedere la fallibilità dei genitori?

Da una parte c’era proprio la volontà di destrutturare quella retorica insopportabile dell’eroismo, che serve alle istituzioni e a tutti quanti noi quando approcciamo certe realtà, certe disabilità.

L’eroismo è un falso tema che nasconde dalle nostre coscienze il fatto che quelle famiglie non sono famiglie di eroi, ma famiglie che spesso stentano in modo drammatico. E così ritorno al tema di questo rapporto fondamentale dell’uomo, della famiglia, con le istituzioni. È troppo facile per un rappresentante di questo paese nascondersi dietro l’eroismo delle famiglie, coprendo in questo modo tutto quello che non viene in qualche maniera offerto in termini di servizi, di aiuti, di sostegni.

Io lo dico sempre: l’eroismo lasciamolo ai supereroi; ogni essere umano ha delle risorse, e le risorse purtroppo, checchè se ne dica, rischiano di finire. Non perché diventiamo improvvisamente cattivi, o disamorati, ma perché un uomo ha risorse che non sono inesauribili. 

A proposito di questo “non siamo cattivi”, “non siamo disamorati”, dopo aver letto già più di uno dei tuoi titoli, ho la sensazione che tu racconti molto bene quel tipo di sentimenti rispetto ai quali ci piacerebbe voltarci dall’altra parte, perché sono un po’ tabù. in questo caso, oltre alla stanchezza di cui parlavamo prima, ci sono dei momenti molto forti di rabbia, quasi di rifiuto di un padre nei confronti del proprio figlio. Qual è il tuo approccio rispetto a questo tipo di temi così difficili da raccontare e anche da digerire per un lettore?

Parto dal presupposto che i libri che io ho amato e che sono rimasti nella mia memoria, quelli che vado a rileggere, sono libri quasi tutti di poesia in cui il tema della scomodità, il tema della fragilità, viene esposto spesso in maniera molto secca, molto brutale. Su questo la poesia non fa sconti.

La letteratura che io ho in mente non è una letteratura che costruisce certezze, semmai le toglie, semmai mette in dubbio, offre un gesto di movimento verso qualcosa che va costantemente rimesso in discussione e riaffermato.

Rispetto al tema specifico - le famiglie che vivono, non solo rispetto ai figli, la disabilità -, l’intenzione era proprio far crollare, infrangere questo muro di retorica che non è minimamente rispettoso di questa realtà. Perché un uomo che viene lasciato solo con una famiglia, con un padre disabile, un fratello, un marito, una moglie, un figlio, è un fallimento.

E rispetto al figlio apro e chiudo una piccola parentesi: la natura vuole che siano di solito i generati, a un certo punto, a prendersi cura dei generanti; questo fattore si sta però invertendo perché da qui a 20 anni noi avremo tra mezzo milione e 700.000 bambini che saranno adulti autistici, e si tratta di una percentuale enorme.

Questi figli continueranno a chiedere aiuto, ma cosa faranno quando i genitori non ci saranno più? Questa inversione richiede, secondo me, una totale rivisitazione dei luoghi e delle abitudini sociali e culturali di un paese. E questo non può non partire da un gesto che è quello del romanzo - non solo mio, spero ne seguiranno altri, come ce ne sono stati altri in precedenza -, che parte senza fare sconti a una verità che è dura e che va rappresentata nella sua durezza senza edulcorarla, senza mentire.

Sei un autore particolarmente amato su Audible: come è stato vedere i tuoi titoli diventare audiolibri, vederli narrati da un’altra persona?

Sono sincero: gli audiolibri per me rappresentano l’unica forma di patto narrativo che è  assolutamente simile alla lettura; gli adattamenti seriali, cinematografici, smontano il rapporto tra autore e lettore, mente in fondo l'audiolibro non è diverso dai radiodrammi ottocenteschi e soprattutto novecenteschi, nel senso che si tratta di una lettura che chiede al lettore di mettere in scena, con il suo immaginario, quello che il raccontatore sta raccontando. E quindi in questo mantiene quel meraviglioso patto narrativo tridimensionale tra autore e lettore, che l’immagine - l’adattamento visivo - smonta, perché l’immagine schiaccia, rende la letteratura bidimensionale.

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