Esce Yara.Il True crime su Audible: conversazione con Giuseppe Genna
Giuseppe Genna si erge come una delle menti più eclettiche e stimolanti del panorama letterario italiano. La sua poliedrica attività letteraria ha sondato diversi generi: dal noir alla saggistica, dalla narrazione lirico-diaristica al romanzo di formazione. Le sue opere, permeate da un intenso respiro storico e politico, sondano i recessi più oscuri della società svelando con una prosa vigorosa e penetrante le complessità profonde dell'animo umano. Tra i suoi lavori più noti spiccano gli audiolibri in Esclusiva per Audible Dies Irae, Hitler , e la serie noir dedicata all'Ispettore Guido Lopez.
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La serie completa de L'ispettore Guido Lopez su Audible
L'impegno letterario di Genna si estende anche agli audiolibri, un mezzo attraverso il quale continua a lasciare un'impronta significativa nel panorama culturale, come dimostrano le sue opere disponibili su Audible: gli abbiamo fatto qualche domanda in occasione del release di Yara. Il true crime in una coinvolgente versione audiolibro con la voce narrante di Francesco Montanari.
Intervista a Giuseppe Genna: conversazione su Yara e altri audiolibri su Audible
Con l'uscita del tuo nuovo audiolibro Yara Il true crime su Audible, nella nota iniziale precisi che "questo libro intende onorare la vita privata": puoi approfondire il significato di questa frase e spiegare da quale prospettiva hai deciso di raccontare la tragica storia di Yara Gambirasio?
E' una questione complessa e per me cruciale. Mi prendo qualche riga, per rispondere compiutamente. Il fatto è che si verifica con puntualità la ripresa dell'oscenità, morale e civile, all'uscita di un film o di una serie o di un'inchiesta tv più o meno maliziosa, quando riguardano casi di cronaca nera che appartengono a un periodo preciso della spettacolarizzazione del crimine: quello degli anni Zero, da Cogne a Yara, appunto, passando per Meredith, Erika e Omar, il piccolo Tommy, Olindo e Rosa, Avetrana. Così il caso criminale che ha per vittima la giovanissima Yara Gambirasio può essere sub judice soltanto dal punto di vista del tribunale mediatico, che perpetra e perpetua questo alto indice di oscenità - il cosiddetto "quarto grado". Non c'è una trasmissione o un prodotto documentario che apporti nuove prove, requisito per riaprire i processi, né che compia un'indagine come sarebbe d'obbligo negli Stati Uniti, per fare un esempio di tv di alta fattura per nulla morale, come si osserva in produzioni quali "The Jinx" o "Making a murderer". Questa riproposizione continua di tesi e supposizioni delle difese, sconfitte in tre gradi di processo, come si è visto in occasione del tentativo di riapertura del processo per la strage di Erba, altro non è che un insulto ulteriore alle vittime e a chi ha subìto la tragedia della loro scomparsa. Io non sono un giornalista e con "Yara. Il true crime" ho inteso andare ben oltre i confini del giornalismo. Mi sono trovato davanti a una tragedia, certamente storica ma comunque una tragedia. E la tragedia è un genere letterario. Non ho inventato nulla. Non ho formulato alcuna supposizione infondata o pretestuosa o sospettosa. Mi sono schierato nell'oscenità di chi usa la parola per richiamare un dolore pubblico che i coinvolti avrebbero il diritto di dimenticare e che invece non possono dimenticare perché la tragedia ha avuto una dimensione nazionale o addirittura internazionale (si pensi al caso Orlandi...). Il senso di colpa mi ha colpito, pensando ai genitori della piccola e al mio gesto di disseppellimento ulteriore di un caso con cui i media hanno sfregiato tutto lo sfregiabile, dalla famiglia stessa al Paese. La nazione è certamente colpevole del cosiddetto "caso Yara". Ci sono molte colpe, altre se ne stanno accumulando di giorno in giorno, nell'abominio di chi, senza rendere onore (il che non è semplicemente giustizia ma qualcosa di più moralmente più alto) alla ragazzina che è stata uccisa e alla sua famiglia, approfitta per farsi giustizia da sé: cioè praticare un'istanza scorretta che parrebbe avere a che fare con la giustizia e invece ha a che fare solo con l'ingiustizia. Io con il libro tento di rendere onore alla vita privata di chi è stato colpito da questa tragedia e al fatto che chi è stato colpito vive una privazione della vita. L'aggettivo "privata" ha un duplice significato: privacy e privazione. Sono consapevole di fallire in questo tentativo.
Una delle peculiarità dei tuoi libri è quella di intrecciare la narrazione di fatti di cronaca nera all'autofiction come in La vita umana sul pianeta Terra o Dies Irae, ma anche di mescolare sapientemente le forme del racconto, del saggio e del reportage come in Assalto a un tempo devastato e vile: da dove nasce questa modalità ibrida e chi sono i tuoi “cattivi maestri” della letteratura, se ce ne sono?
Molto si deve al momento in cui mi sono formato letterariamente, negli anni Ottanta. Era l'epoca del postmoderno e di ciò che ne seguiva, o che ne veniva implicato. In Italia la modalità postmoderna non aveva affrontato nodi fondamentali, come la contaminazione tra cultura alta e bassa, tra originale e copia, tra falso e vero, tra io e non-io. La mia formazione è stata essenzialmente poetica, sotto il magistero anzitutto di Antonio Porta, purtroppo scomparso precocemente nel 1989. La comunità di riferimento, a 50 metri da casa mia, era in quegli anni la fucina creativa della cooperativa Intrapresa di Gianni Sassi, che editava "Alfabeta" e "La Gola" e organizzava "MilanoPoesia" e pubblicava gli Area e il primo Battiato. Vi partecipavano eminenze dell'avanguardia, da Nanni Balestrini a Gian Emilio Simonetti. In seguito, il rapporto con il poeta italiano Mario Benedetti e la teorica della letteratura e traduttrice Donata Feroldi, oltreché con Antonio Riccardi, poeta e direttore editoriale, e Antonio Franchini, scrittore e direttore editoriale anch'egli, mi permise di affrontare il passaggio alla prosa, in cerca di una narrazione ibrida, tra i Novanta e gli anni Zero. L'autofiction non è tale: il racconto di me stesso è più inteso come canto dell'io, quindi pura lirica, e non come finzione. E' diaristico, il 90% delle volte è qualcosa che è avvenuto davvero, storicamente. Oggi, ad altezza 2024, dopo il Covid e nella velocizzazione dei processi, credo che ogni opera debba essere ibrida di per sé, autonoma formalmente e stilisticamente, pura invenzione senza apparentamenti che legano a canoni ormai inesistenti, come ha pubblicamente dichiarato e si appresta a fare un autore del calibro di Walter Siti.
Cyber violenza, tecnologie di controllo, dipendenza dai social media, raccolta massiva di dati: sono tante le formule che ci rendono spettatori di vissuti tragici e fatti di cronaca nera. Da abile narratore di storie true crime sapientemente mescolate al racconto di te stesso, come pensi che potremmo metterci in salvo dalla tentazione di questa bulimia mediatica: dove finisce la narrazione e dove inizia il morboso voyeurismo?
Sostiene Aristotele che il male sta nella presenza del testimone: colui che guarda dall'esterno costituisce un'appendice della scena e la condiziona irrimediabilmente. Ma è anche fuori scena. Egli è osceno, è fonte di oscenità. Oggi, come intuiva un regista geniale come Terry Gilliam, nel film "Brazil", con cui l'intera società attuale veniva filologicamente profetizzata, la scena è ovunque e ciò significa che l'oscenità è ubiquitaria. Se soltanto ci fermiamo a considerare anche un solo atto di ciò che un tempo era estetico, troveremo quasi sempre che è osceno. La maturazione dell'oscenità è la rivoluzione e al contempo è controrivoluzionaria, nel nostro caso: è la conferma e la risposta umana a una rivoluzione che le cose stanno praticando. Le cose, non l'umano: le cose hanno preso a pensare, a comportarsi, a vivere. Ciò implica da parte della specie umana una reazione di chiusura particolarmente immatura e caotica, moralmente abietta, che il "trumpismo" in America emblematizza bene, ma che ovunque è diffusa, in qualità di materia digitale. L'oscenità del voyeurismo ha sostituito la potenza dell'autentico desiderio. Sottolineo ancora che, se facessi autofiction e non prosa lirica, sarei compromesso nell'oscenità senza la consapevolezza di esserlo, e di esserlo in modo fatale: è impossibile sottrarsi a questa putrefazione generalizzata, dove sta fermentando la nuova vita della specie umana sul pianeta Terra.
Sono cinque i romanzi della serie dell'ispettore Guido Lopez - molto amati da un largo pubblico di lettori e ascoltatori di audiolibri su Audible – si tratta di una serie nella quale racconti di una Milano a cavallo tra la seconda metà del Novecento e gli anni Duemila: quante sono le facce di Milano che hai vissuto e che continui a vivere e quanto, la tua città, ha inciso nella tua formazione?
Anzitutto devo dire che l'interesse delle lettrici e dei lettori per i romanzi a protagonista Lopez non smette di colpirmi e di rendermi grato a loro. Credo che ritornerò, nel prossimo futuro, a un romanzo nero in cui Guido Lopez, oggi più che sessantenne, opera nell'attuale Milano che è la metropoli inattuale, odierna, mutagena, specchiata, al tungsteno. Milano è imprescindibile per la mia formazione e per la mia scrittura. La sua trasformazione è avanguardia pura, che ci introduce in un'idea di metropoli planetaria. La sua internazionalizzazione comporta un innalzamento di presenza di intelligence italiane e straniere, un sottobosco di pratiche oscure sotto fari accecanti, facciate di vetro che offuscano il riverbero di un sole nero e di una notte priva di luce. "Il Sottobosco Orizzontale" del Bosco Verticale. La Milano dei libri miei passati è ormai memoria, non la si ritrova nell'oggi. Le cose sono andate troppo velocemente, la trasformazione è accelerata, si passa dalla periferia feroce di "Assalto a un tempo devastato e vile" all'evoluzione e al salto di specie di "History" o di "Reality", quest'ultimo essendo il regesto narrativo del lockdown da Covid.
Sei un intellettuale molto attivo e, oltre a scrivere romanzi e saggi, sei anche autore di molti articoli di critica letteraria: in un mondo nel quale l'IA sta lentamente detroneggiando i creatori di contenuti e gli scrittori di ogni risma, pensi che sia ancora possibile continuare a produrre riflessioni critiche sul presente e contenuti di qualità? Detto in altri termini: da dove si potrebbe partire per immaginare una nuova cultura digitale o di autodifesa digitale?
Ovviamente ci sarà un periodo in cui emergerà la figura del "prompter", il "pittore" che usa l'intelligenza artificiale come una vernice o una tempera, per creare opere con istruzioni precise date all'IA. Poi l'IA si darà i "prompt" da sola, come in realtà già sta facendo ovunque a qualsiasi livello. E' troppo presto per intravvedere il destino della scrittura oltre i limiti della pagina, cartacea o elettronica che sia. Se prevarrà una comunicazione istantanea, "a pacchetti" di informazione compressi, soprattutto con l'avvento dei computer quantistici, l'orizzonte cambierà e la letteratura sarà una forma incantatoria e veritativa di evasione dalle molte linee temporali che la mente umana, trasformata dall'ibridazione con le tecnologie, si appresta a scoprire, percorrere e vivere. Già oggi ci troviamo in una fase di avvicinamento a questo orizzonte. Se guardo la produzione di serie tv, tutte tarate su target young adult o grossolane per mainstream, ravvedo che la produzione estetica umana profonda è ristretta in una nicchia quasi irrintracciabile. Béla Tarr e David Lynch non fanno più film. Da noi Michelangelo Frammartino è costretto praticamente ad autoprodursi e si tratta di uno dei migliori registi italiani. L'IA sarà in grado di creare opere senza costi di produzione e intermediazioni tossiche. Credo che il futuro incomba come se vivessimo un thriller vero, una spy story vera. Abbiamo ragione tutte e tutti a scriverne, quindi.
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