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Intervista a Pino Cacucci

Intervista a Pino Cacucci

Nessuna modalità narrativa sembra essere un segreto per Pino Cacucci. Sceneggiature, fumetti, traduzioni, romanzi… lui le ha frequentate e messe in atto tutte con successo. È però come romanziere che lo scrittore bolognese d’adozione, classe 1955, è riuscito a far appassionare alle sue storie migliaia di lettori entusiasti. Merito della sua capacità di farci immergere nello spirito, nella cultura e nel linguaggio di terre magiche e suggestive, che nelle sue opere diventano, insieme alle persone che le abitano, motore della storia.

Viaggiatore incallito, Pino Cacucci restituisce tra le pagine dei suoi libri i colori, i tempi dilatati e lo spirito vitale dell’America Latina. Il Messico è parte del suo DNA, e da alcuni dei suoi libri ambientati proprio in questa terra favolosa quanto complicata sono stati tratti film di successo, dal mitico Puerto Escondido di Gabriele Salvatores a Viva San Isidro!

Puerto Escondido
San Isidro Futból

A sette anni di distanza dall’ultimo romanzo, nel 2022 è uscita in libreria la sua ultima opera, un libro denso che racchiude in sé vari generi e forme narrative. Stiamo parlando di L’elbano errante, un romanzo (quasi) epico-cavalleresco di oltre cinquecento pagine, che ci fa immergere nell’epoca rinascimentale facendoci viaggiare con la fantasia fra terre lontane e vicine sulla scia di un’epopea donchisciottesca.

Avventura, amore, filosofia, confronto tra religioni, lotta tra oriente ed occidente… c’è moltissimo in questo spettacolare e caleidoscopico romanzo dove assedi, battaglie e scontri tra flotte si susseguono viste dagli occhi di un soldato di ventura in cerca di vendetta.

Ci siamo fatti raccontare da Pino Cacucci qualcosa di più su L’Elbano errante e sul suo rapporto con la letteratura messicana in particolare e sudamericana in generale.

Perché hai scelto di raccontare questa storia che mette insieme tanti generi narrativi (libro di viaggio, romanzo storico e civile, fumetto, teatro..) mescolando realtà e finzione?

Alla base di un’idea che ho coltivato per una decina d’anni – con lunghe ricerche e innumerevoli letture – c’era la voglia di narrare cosa sia stato il cosiddetto Rinascimento, un secolo di massacri e guerre interminabili, scontri sanguinosi con i Turchi che hanno compiuto veri genocidi e costretto alla schiavitù innumerevoli giovani donne sequestrate ovunque, e per contro, una “civiltà” cristiana che era in piena Inquisizione, con altrettante guerre tra cattolici e protestanti, con le persecuzioni di ugonotti, valdesi, “eretici” di ogni genere, “streghe” da bruciare sul rogo, e così via… Forse è stata per me una sorta di istigazione, questo odierno uso della parola “rinascimento” sempre a sproposito: volevo dunque raccontare cosa fu veramente quell’epoca.

L'elbano errante

Il romanzo, che è “storico” e anche “d’avventure” e di “cappa e spada”, come si diceva una volta, ha come protagonista Lucero, personaggio di finzione che però attraversa i principali eventi del Rinascimento, dunque la sfida era far coincidere – per età e spostamenti – le sue vicissitudini con gli eventi realmente accaduti, e sua sorella Angiolina. Il romanzo si sviluppa su due contesti paralleli: la realtà di Lucero spadaccino e soldato di ventura, e la realtà di Angiolina rapita e venduta all’asta di Algeri. Angiolina-Aisha è l’altra protagonista, in alcune fasi è persino predominante come figura narrativa. E nel corso delle avventure e disavventure narrate nel libro, emergono sempre donne non soltanto come comparse o amanti di Lucero, ma figure emblematiche delle vicende dell’epoca (Raquel l’ebrea di Siviglia perseguitata dall’Inquisizione, la “strega” del beneventano, la prostituta di Firenze o quella di Napoli, entrambe simboli di una certa realtà da “soldataglia”, o anche la giovinetta Eréndira sul lago di Pátzcuaro… fino a personaggi come Zahira “l’Ape Regina” dell’harem di Algeri o la convertita Amina). 

E in tutto questo, arrivare all’incontro con Miguel de Cervantes… L’idea di narrare le vicissitudini di Cervantes quando era ancora soltanto uno spadaccino e un soldato dei Tercios de Infanteria a Napoli – dove era riparato dalla Spagna arruolandosi come in una sorta di Legione Straniera per sfuggire alla condanna del taglio della mano destra per aver gravemente ferito un uomo influente in un duello – è stato il punto a cui volevo arrivare in questo romanzo: sapere che aveva combattuto nella “battaglia delle battaglie”, Lepanto, mi affascinava non poco, volevo farne un protagonista di azioni e dialoghi, quindi la vita di Lucero l’Elbano era da me “predestinata” a questo incontro tra uomini d’arme, con una differenza d’età di circa vent’anni. Sono entrambi appassionati di letture epiche, cavalleresche, picaresche, e questo suggella subito il rapporto di amicizia. Cervantes diventerà il cantore dell’avventura utopica camuffata da follia, Lucero l’ha vissuta fin da ragazzino e continua a viverla, pur sentendo che gli anni e le amarezze stanno erodendo le motivazioni per andare avanti: “Loro sono la barbarie, ma noi non siamo certo la civiltà”…

Come è nato il tuo rapporto con la letteratura epico-cavalleresca? Avevi già utilizzato questa formula in altri libri o è la prima volta?

Forse è nato proprio con la lettura del Don Chisciotte, e con le ricerche legate alla narrativa cavalleresca, passando per l’Orlando furioso dell’Ariosto, però non mi ero mai cimentato in un romanzo che mi piacerebbe poter definire “epico”, anzi, direi che ho puntato proprio all’epicità ricostruendo battaglie e duelli, ma anche traversie quotidiane e riflessioni amare… Forse in precedenza ho tentato in altri romanzi “storici” di narrare l’“epicità degli sconfitti”, come in Quelli del San Patricio, la storia del battaglione di irlandesi che combatterono dalla parte dei messicani nell’invasione statunitense del 1846-48, anche se in questo caso mi ero spinto meno indietro nel tempo, o forse anche in In ogni caso nessun rimorso, sulle imprese disperate della cosiddetta Banda Bonnot, gli anarchici che sfidarono la società francese agli inizi del Novecento. Ma in quanto agli aspetti “cavallereschi”, sì, è la prima volta.

Quelli del San Patricio

Che valore ha la figura di Don Chisciotte oggi? Può significare la volontà di tornare a sognare oltre la cortina degli inganni? In altre parole: quale può essere il ruolo del romanzo epico-cavalleresco in un’epoca storica come la nostra, nella quale l’individuo sembra essere costretto entro spazi angusti e sognare grandi imprese epiche pare una dimensione impossibile poiché si deve fronteggiare prima di tutto la sopravvivenza?

Domanda perfetta, perché racchiude in sé l’essenza di tutto ciò che avrei da dire al riguardo: siamo costretti in spazi angusti privi di orizzonti, in questa epoca non meno nefasta di altre, dove fronteggiare prima di tutto la sopravvivenza spegne qualsiasi sogno, anzi, la capacità stessa di sognare. In Italia come nel resto d’Europa, Don Chisciotte è morto e sepolto, dimenticato, al massimo letto “per dovere” nei programmi scolastici delle superiori in Spagna, ma nulla più. Mentre in Messico, lo continuo a comprovare, Don Chisciotte e Sancho Panza cavalcano ancora, più vivi che mai. 

Oggi immaginerei un romanzo epico scritto da una donna curda combattente contro i tagliagole turchi o filo turchi islamisti, chissà che già non ce ne siano, di romanzi del genere, ma come potrebbero mai arrivare fino a noi, se dei curdi nessuno sembra più voler sapere niente?

Dove si svolge la gran parte delle vicende del libro? Come nella tua migliore tradizione, anche in questo caso i luoghi sono parte integrante della narrazione?

Sì, anche in questo caso i luoghi non sono semplici “sfondi” o ambientazioni ma parte integrante della narrazione; le peregrinazioni da vendicatore dell’errante Lucero passano dall’Elba (isola protagonista, ovviamente) alle città più importanti dell’epoca, come Firenze, Napoli e Siviglia, e anche Roma e Venezia, e Bologna, passando per Malta e l’Ungheria, mentre Angiolina vive la realtà di Algeri e del Nordafrica… E a un certo punto… faccio arrivare Lucero, a bordo di un galeone, fino in Messico, l’allora Nueva España dei Conquistadores. 

Dopo un’intera vita di frequentazioni, appassionate letture e ricerche sulla storia dell’America Latina e in particolare del Messico, a cui ho dedicato non pochi libri e innumerevoli articoli, ho creduto di poter ricreare quelle atmosfere in base alle conoscenze maturate in quarant’anni di vagabondaggi sia geografici che letterari. Il tentativo, che spero sia riuscito, era trasmettere quella stessa meraviglia che provò Bernal Díaz del Castillo, il cronista di Hernán Cortés, quando vide spalancarsi davanti agli occhi la capitale degli Aztechi – anche se in realtà loro si chiamavano Mexíca – la Gran Tenochtitlán, città più popolosa della Costantinopoli coeva, o persino di Parigi, che nel XVI secolo contava circa 180.000 abitanti, una metropoli senza eguali nel mondo, edificata sulle acque del lago Texcoco, praticamente simile a Venezia per canali e andirivieni di imbarcazioni, strade sopraelevate e ponti a collegare le varie isole, costruzioni di alta ingegneria addirittura superiori a ciò che allora si conosceva in Europa… Tutto questo con l’aggravante che davanti alla vista di Lucero e del suo manipolo di armigeri ex galeotti, si estende la distesa di macerie provocate dalla Conquista e un’umanità assoggettata e vilipesa. Ma non doma.

Il libro è ambientato nel Rinascimento, un’epoca di grande bellezza e splendore ma anche di violenza inaudita. Se potessi scegliere un’epoca storica nella quale vivere, o semplicemente un altro periodo storico da raccontare nei tuoi libri, quale sarebbe?

Su questo non esito un istante, riguardo a una macchina del tempo in grado di riportarmi inun’altra epoca: vorrei vivere negli anni Venti e Trenta a Città del Messico, un periodo distraordinaria e irripetibile effervescenza culturale-sociale-politica, in cui le donne fecero la vera rivoluzione, e il mondo cosiddetto occidentale avrebbe dovuto aspettare mezzo secolo, cioè gli anni Settanta, per vivere le stesse istanze di liberazione, sovvertendo le antiche abitudini e affermando che ci sono tradizioni “buone” da rispettare e tradizioni pessime da seppellire. Oggi, chi non conosca quel periodo appassionato che sconvolse e rifondò la società messicana (pur relegato soprattutto nella capitale, mentre ampie zone del paese si aggrappavano a un nefasto passato per mantenere privilegi retrivi e ottusi) farebbe fatica a immaginare che a Città del Messico era tutto già accaduto, rispetto all’Europa e agli Stati Uniti di mezzo secolo dopo. Molto di ciò l’ho narrato in vari libri, dedicati alle donne di quell’epoca: Frida Kahlo (Viva la vida), Tina Modotti (Tina), Nahui Olín (Nahui), Antonieta Rivas Mercado (Nessuno può portarti un fiore), e tante altre.

¡Viva la vida!

Hai passato la vita a frequentare, attraverso le letture, le ricerche e naturalmente i viaggi, l’America Latina, a cui hai dedicato libri e articoli. Quanto ha influito la letteratura messicana e sudamericana sulla tua produzione letteraria e sulla tua vita? Quali sono i tuoi autori latinoamericani di riferimento?

Ho iniziato a vagabondare in Messico e in alcune parti della sterminata America Latina negli anni 80, non a caso quando l’Italia mi appariva come immersa in un’era glaciale delle passioni, quelle che la cultura latinoamericana continuava, fortunatamente, a produrre in maniera incessante e prolifica. È indubbio che la sua letteratura ha influito su quasi tutto ciò che avrei poi scritto, grazie ad autori che in molti casi sono diventati cari amici, come Paco Taibo II, e Luis Sepúlveda, che mi manca enormemente: avevamo l’abitudine di raccontarci a vicenda cosa stavamo scrivendo, scambiando consigli e pareri, informazioni e aneddoti… E così pure Eduardo Galeano, interprete e cantore eccelso di quella che Ernesto Guevara da giovane chiamava “la nostra Maiuscola America”.

Il tuo amico Paco Ignacio Taibo II (scrittore, giornalista, saggista ed attivista politico spagnolo naturalizzato messicano) è stato nominato nel 2019 direttore generale del Fondo de Cultura Económica, un importantissimo gruppo editoriale in lingua spagnola con sede in Messico. Questo mi porta a chiederti quanto è importante la cultura per contrastare la violenza e la povertà in Messico? 

È fondamentale. Paco Taibo II è parte di un progetto – come principale animatore e promotore – che da molti anni diffonde cultura popolare, nell’accezione più positiva e costruttiva del termine: con la Brigada para leer en libertad organizza decine e centinaia di fiere del libro, eventi culturali e incontri con scrittori ecc., soprattutto nelle zone delle periferie della sterminata megalopoli, tutti semi sparsi ovunque che nei decenni hanno messo radici e germogliato. 

Ho partecipato a tante di queste iniziative, e ho visto personalmente l’entusiastico coinvolgimento degli abitanti dei barrios (quartieri che a volte, da soli, sono vasti e popolosi quanto una grande città europea), dimostrando un fatto incontrovertibile: le persone di scarse risorse economiche spesso non leggono perché i libri per loro costano troppo. In innumerevoli iniziative, la Brigada ha distribuito milioni di copie di libri presi dai magazzini polverosi di grandi editori, e la risposta è sempre stata… be’, quando c’ero, l’avrei definita commovente, emozionante. E ora che Paco dirige una delle più grandi case editrici delle Americhe, il Fondo de Cultura Económica, cioè l’editrice di stato messicana, l’unica che può raggiungere svariati angoli remoti del Messico (perché è facile trovare libri a Città del Messico o a Guadalajara, ma pressoché impossibile altrove), ha potuto dimostrare nei fatti quanto i messicani amino leggere, se esiste una struttura in grado di fornire loro la lettura. Questo è, certo, un lavoro da formiche che quotidianamente trasportano un semino e lo depositano… ma la rete si è allargata a livelli smisurati. 

So bene che non si contrasta la violenza con i libri: dove si fatica a sfamarsi, ha sempre buon gioco la malavita organizzata, tu gli puoi portare un libro, ma quegli altri portano soldi in cambio di smercio di droga, difficile reggere il confronto… Però, ho un esempio, piccolo ma concreto: in Messico esiste uno spaventoso problema di corruzione delle varie forze di polizia. Da decenni ormai Paco e la Brigada (e ora anche usufruendo delle strutture del Fondo) organizzano corsi di lettura e scrittura creativa per agenti di polizia. Ho assistito a scene in cui poliziotti (e soprattutto poliziotte) che potremmo definire superficialmente “acculturati”, ma essenzialmente coinvolti in un ambiente improntato alla giustizia sociale che comunque li aveva permeati e cambiati, assicuravano di farsi ammazzare piuttosto che venire meno al giuramento di servire la popolazione e non più solo gli interessi dei politici e dei delinquenti. Sono tanti piccoli ma significativi passi avanti ottenuti con la “cultura”. 

Frequento Città del Messico da quarant’anni, e mi piace pensare che se oggi, a distanza di tanto tempo e di tanti sforzi collettivi, è diventato meno probabile il fatto che chiedere l’aiuto degli agenti equivalga a farsi rapinare, be’, è anche merito di tutto ciò. E indubbiamente di chi oggi governa la metropoli e il paese, ma il cambiamento è avvenuto anche e soprattutto come evento culturale lentamente maturato, non con una semplice campagna elettorale.

Raccontaci del tuo rapporto con la città di Bologna: il cambiamento storico di questa “babilonica” città dagli anni ‘70 ad oggi ha influenzato, nel corso degli anni, la tua produzione letteraria?

Con Bologna ho un rapporto ormai di quieto vivere, qui ho la casa dove sono sempre tornato dai viaggi e dove scrivo e traduco, per il resto… Bologna non ha più quell’attrazione che negli anni 70 la rendeva unica per creatività, ironia, punto di riferimento per innumerevoli menti e cuori sensibili e trasgressivi. Oggi è la “vecchia signora” di cui cantava Guccini, però ammetto che vivendo in una città da troppo tempo, si tende a vederne più gli aspetti desolanti che quelli positivi. 

Del resto, Bologna segue il destino di decadenza che la rende così “europea”, cioè parte integrata di un continente senz’anima. Riguardo i miei scritti, Bologna mi ha fornito spunti del suo passato – soprattutto per alcune donne della Resistenza – ma ben pochi del suo presente, con eccezione forse dei racconti pseudo-investigativi di Mastruzzi indaga, personaggio che, pure lui, ci sopravvive suo malgrado e fa del proprio meglio per mantenersi decente e dignitoso.

Mastruzzi indaga

Cosa diresti a un ragazzo di venti o trent’anni che volesse salire su una bicicletta in Europa, una moto in Sudamerica o un autobus sgangherato in Messico, scoprire il mondo e magari provare a cambiarlo anche un po’? Quale sarebbe il tuo consiglio?

Credo che il solo fatto di voler “dare consigli ai giovani” significhi che si è diventati irrimediabilmente vecchi. Questo mondo così com’è diventato non si cambia più, specie in questa devastante epoca senza passioni forti né speranze di riscatto, dove la mansuetudine degli infelici mi appare inspiegabile. 

L’unica via di fuga è, appunto, la fuga: e a chi ha voglia di muoversi, direi di farlo, senza fermarsi a guardare indietro, perché qui non c’è rimasto nulla per cui valga la pena di spendere energie o sacrificare tempo e intelletto. Sicuramente, citando il titolo di un vecchio libro, “la vita è altrove”.

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