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L'ingrata

Di: Dina Nayeri
Letto da: Alessandra De Luca
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Sintesi dell'editore

Alla fine degli anni ottanta, quando la sua famiglia decise di fuggire dall'Iran in guerra, Dina Nayeri era una bambina. Il rumore delle bombe, le sirene e le corse per nascondersi nel seminterrato, la poca luce filtrata dalle finestre serrate erano tutte cose normali. Negli anni a venire, sui letti a castello delle case per i rifugiati di Londra, di Dubai, di Roma, poi dell'Oklahoma, Dina conobbe per la prima volta il silenzio del sonno tranquillo e ininterrotto: quella fu la sua prima idea di cosa fosse la pace.

Sua madre le diceva di pregare e di essere grata. Sui migranti sono state scritte molte storie. A partire dall'Eneide, l'esperienza di chi è costretto a fuggire non ha mai smesso di essere all'origine di narrazioni impetuose, grandi, travolgenti. Storie di singoli individui, soli contro la perdita di tutto, storie che sono universali. Dopo un clamoroso reportage uscito sul "Guardian", The Ungrateful Refugee, Dina Nayeri si misura con la domanda più impietosa del nostro tempo: che cosa significa essere un migrante? E soprattutto: cosa succede quando chi fugge diventa un rifugiato? Qual è il prezzo della sua integrazione? La risposta è semplice. La prima regola per il rifugiato è rimanere al proprio posto. Essere meno capace, avere meno esigenze degli altri. Accontentarsi e ringraziare per l'accoglienza, accettando il destino di un terribile circolo vizioso: sei un pigro richiedente asilo, finché non diventi un intruso avido.

Grazie alla propria esperienza, una scrittrice esplora come vive chi è costretto a fuggire, come si declina il rifiuto delle comunità di approdo, e indaga la tragedia dello straniamento dell'identità che tutti i giorni avviene sotto i nostri occhi.

©2020 Giangiacomo Feltrinelli Editore S.r.l.. Tradotto da Flavio Santi (P)2021 Audible Studios

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integrazione, assimilazione

Questo libro mi ha portato indietro a Berlino fine anni 80 e agli studenti profughi curdi che ho conosciuto: adesso li capisco meglio.

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Profughi…

Lavorando nel “settore” cercavo un libro che mi aiutasse a capire determinate situazioni che, molto spesso, mi trovo davanti. Una specie di guida per operatori. In alcune storie mi ci sono ritrovata in pieno e mi ha fatto molto riflettere il sentirle raccontare dalla “parte opposta”. Il riflettere su ciò che intendiamo per integrazione noi europei, ad esempio. Oppure sull’attesa di “una risposta” che annulla la volontà dell’individuo, sulle situazioni di forte depressione che si sviluppano a causa di ciò… Ciò che invece non ho introiettato è proprio la storia di profuga dell’autrice. Il mio pensiero è stato: Michelle Obama che parla della difficoltà di essere un afroamericano… Le storie che incontro quotidianamente sono ben lontane dal viaggio e dalla vicenda che lei racconta. È comunque la storia di una privilegiata. In tutti i sensi: la disponibilità di denaro, di alloggi, di levatura culturale e del percorso di studi, il far parte comunque di un’élite ambasciatrice presso i vari campi profughi di Europa (è di per se difficilissimo anche per chi nel ambito ci lavora da sempre)… Nulla di ciò è normale. Le persone che incontro tutti i giorni sono spesso analfabeti, giovani e giovanissimi traumatizzati senza alcuna esperienza se non quella di zappare la terra, che non riescono nemmeno a sognare di iscriversi alle scuole superiori… figuriamoci l’università. Persone che dopo alcuni anni in Italia non parlano l’italiano e finiscono per ampliare le fila degli sfruttati, degli schiavi moderni a beneficio di mafia ed imprenditori senza scrupoli. Non pensano a rifarsi il naso per essere più europei e nemmeno possono pagare per questo. Quindi si a tutta la parte di riflessione sociologica, si all’analisi della richiesta di asilo, si alle vere storie di migrazione e si alla storia della madre, ma avrei preferito meno riflettori puntati su se stessa che in fondo è cresciuta ed ha vissuto da occidentale molto più privilegiata dell’americano o europeo medio.

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