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Intervista con gli autori di Arnesi: Bambini in manicomio

Intervista con gli autori di Arnesi: Bambini in manicomio

Manicomi, elettroshock, camicie di forza… sono tutti termini che oggi spaventano, evocano qualcosa di terribile e molto lontano da noi. Ma non serve andare così tanto indietro nel tempo per trovare tracce di un sistema che trattava la malattia mentale in modo violento e sconsiderato. La strada per arrivare alla legge Basaglia, quella che in Italia decretò la chiusura definitiva dei manicomi nel 1978, fu lunga e difficoltosa. 

In questo contesto si inserisce la storia raccontata in Arnesi, un podcast scritto da Pasquale Formicola ed Elisabetta Rasicci, che in 6 episodi di un’ora ci riporta indietro nel tempo fino alla Torino del 1974. 

Arnesi: Bambini in manicomio

In quell’anno, il sistema psichiatrico venne messo in discussione da un processo storico: quello al dottor Giorgio Coda, soprannominato “elettricista” per l'uso a suo dire terapeutico dell'elettroshock sui corpi dei suoi pazienti. I pazienti in questione erano i piccoli ospiti dell'ospedale psichiatrico Villa Azzurra di Grugliasco; bambini considerati “arnesi”, parola che in dialetto piemontese indica un ribelle, una persona difficile da gestire e da controllare, trasformati in numeri, legati e maltrattati proprio dal dottor Giorgio Coda. Torture che terminarono solo nel luglio del 1970, quando un fotoreporter de L’Espresso riuscì a fotografare i piccoli pazienti e a svelare all'Italia intera le violenze che subivano. 

Di questo parla il podcast Arnesi, ma ce lo raccontano meglio i due autori e Roberta Lippi, host e supervisore editoriale del podcast.

Buongiorno Pasquale ed Elisabetta, vi va di presentarvi brevemente ai lettori del blog di Audible?

Elisabetta: Ciao a tutti i lettori del blog, io sono Elisabetta, ho 34 anni e sono autrice televisiva e documentarista. 

Pasquale: Io sono Pasquale e sono un autore e regista di documentari. Noi lavoriamo insieme da sempre e facciamo questo mestiere per passione e… perché non sappiamo fare altro. [ride]

Arnesi è il vostro primo podcast? Che rapporto avete con questo formato?


Elisabetta: Arnesi è il nostro primo podcast in assoluto. Noi veniamo dalla televisione e da un tipo di scrittura che si traduce in immagini. Quando scrivi un podcast non puoi fare affidamento sulle immagini, e quindi la sfida è stata quella di riuscire a trasmettere, tramite il solo udito, tutto quello che una persona prova durante la visione di un film o di un documentario. È stato stimolante.

Pasquale: Personalmente ho iniziato la mia carriera in radio e quindi per me è stato un po’ come tornare alle origini. Sono sempre stato un ascoltatore di podcast e ritrovarmi a farne uno è stato gratificante.

Di cosa parla il podcast e perché avete deciso di raccontare questa storia?

Pasquale: Arnesi  racconta la storia della chiusura dei manicomi a Torino in un arco temporale che va dalla fine degli anni ’60 fino alla promulgazione della legge Basaglia.
Tutti noi ci ricordiamo delle battaglie di Franco Basaglia ma molti non sanno che prima della legge 180 c’è stato lo scandalo del manicomio dei bambini di Villa Azzurra, a Torino, scandalo che venne fuori grazie ad una foto pubblicata su “l’Espresso”.
La foto in questione ritraeva una bambina, Maria, legata, mani e piedi, nuda ad un lettino. Letteralmente crocifissa.
L’uscita di quelle foto scoperchiò il vaso di Pandora che portò ad un processo storico contro un medico: Giorgio Coda, passato alla storia col soprannome di “elettricista” per il suo utilizzo sadico dell’elettroshock.

Elisabetta: Questo è stato il “prequel” della rivoluzione basagliana. Il processo all’elettricista Giorgio Coda anticipò e velocizzò la rivoluzione all’interno dei manicomi, ed è anche grazie a questa storia se oggi abbiamo la legge Basaglia, la legge 180 per l’appunto.
Abbiamo deciso di raccontarlo perché, per come la vedo io, la storia serve a non ripetere gli stessi errori del passato. Ricordare è fondamentale per non inciampare nuovamente negli stessi sbagli. Sapere è importante per l’evoluzione della società.

L’interesse per questa vicenda, da parte vostra, è nato da una fotografia, scattata il 26 luglio 1970 presso l’ospedale psichiatrico Villa Azzurra di Grugliasco. Cosa vi ha trasmesso quella fotografia da spingervi ad approfondire?


Elisabetta: Orrore. Rabbia. La fotografia scattata da Mauro Vallinotto e pubblicata sul paginone centrale dell’Espresso ci ha trasmesso la stessa reazione dei lettori del 1970. Quella foto è una pugnalata. Ricordo di aver pensato che quella bambina poteva essere mia figlia…
Poteva essere la sorella, la nipote, la figlia di ognuno di noi.
Ho provato un fortissimo senso di nausea e ne ho provata ancora di più sapendo che, ahimé, ancora oggi molti bambini subiscono sevizie in nome di un sistema sbagliato o perché sono nati in un paese in guerra.
Averla scoperta così un po’ casualmente ci ha spinti a voler raccontare la sua storia, forse anche un po’ per darle giustizia, e la cosa incredibile è che più studiavamo la vicenda e più ci sembrava necessario farla tornare alla luce.

Ricollegandomi alla fotografia, vi faccio questa domanda: il podcast è un formato esclusivamente sonoro; per voi che siete abituati all’audiovisivo, è stata una sfida raccontare una storia senza l’ausilio di immagini?

Pasquale: Sì, è stata una sfida perché tradurre in parole, suoni e musica quello che era impresso sui giornali, sulle foto e negli archivi che abbiamo consultato non era affatto semplice.
Provate a cercare l’articolo de “l’Espresso” e ditemi come può un essere umano raccontare quello che vede col solo utilizzo della voce…
Come puoi raccontare la sofferenza senza provare rabbia? Come fai a descrivere quello che vedi senza vacillare nella voce? Insomma è stata una vera sfida si, e non nascondiamo l’idea di poter portare, un giorno, questa storia anche in video.


Per la realizzazione del podcast avete incontrato uno dei bambini, oggi adulto, di Villa Azzurra. Come lo avete trovato? Cosa ricorda di quei giorni?

Pasquale: Abbiamo incontrato Spartaco, che è entrato nel manicomio degli adulti di Collegno a 3 anni e a 6 anni venne trasferito a Villa Azzurra, è stato uno dei primi bambini a subire le sevizie dell’elettricista Giorgio Coda.
Spartaco è stato abbandonato dai genitori perché era semplicemente povero ed ha vissuto tutta la sua infanzia in manicomio.

Elisabetta: Intervistarlo è stato un colpo al cuore. Ricordava quei giorni come se ci stesse raccontando un brutto sogno e molte di quelle sensazioni che si accavallavano nella sua mente ce le trasmetteva con lo sguardo. Oggi invece vive una vita completamente diversa, nella tranquillità di una famiglia che si occupa di lui. 

Cosa significò, a quei tempi, l’inchiesta de L’Espresso su Villa Azzurra e come contribuì alla chiusura definitiva dei manicomi in Italia, avvenuta nel 1978 con la legge Basaglia?

Elisabetta: A quei tempi l’inchiesta dell’Espresso fu uno schiaffo al paese. Immaginate la reazione dei lettori a quella foto, che in una domenica d’estate, così senza preavviso, si trovano la foto di una bambina nuda, legata mani e piedi. E’ stato uno shock! Ma uno shock necessario per portare la discussione sulla revisione del sistema psichiatrico ad un livello superiore, alla formulazione di una legge che decretasse la chiusura di tutti i manicomi, che non erano costruiti per curare ma per imprigionare le persone. Purtroppo solo guardando il trattamento rivolto ai bambini l’argomento è diventato di rilevanza nazionale.

Sono passati più di 50 anni da questa vicenda. Cosa può ancora insegnare al pubblico dopo tanto tempo e perché è importante farla conoscere?


Pasquale: Sono passati più di 50 anni ma la storia è ancora attuale. Il trattamento delle malattie mentali è un argomento di dibattito molto sentito oggi. Le conseguenze degli anni del Covid nella diffusione delle diagnosi di depressione soprattutto nei più giovani, è un tema che merita un approfondimento e bisogna guardare al percorso fatto per eliminare le aberrazioni che il sistema naturalmente produce. Per evitare di tornare al passato, con affermazioni del tipo: “Riapriamo i manicomi”, perché anche il linguaggio deve essere adeguato ai tempi e non rievocare scenari da “bei tempi andati”, che poi come descriviamo nel podcast, di bello non avevano proprio nulla.

Elisabetta: Arnesi parte da una forte esigenza narrativa: in un momento socio-politico in cui spesso vige il revisionismo storico sui principali eventi che hanno portato alle lotte per i diritti civili in Italia è doveroso raccontare come queste svolte fossero scaturite dall’iniziativa di persone comuni che semplicemente volevano fare il loro lavoro e portare un sentito cambiamento nella società.

La vicenda racconta una lotta di pochi contro un sistema di potere che mirava a conservare lo status quo, al controllo sociale attraverso, non l'educazione, ma la repressione dei più deboli. Arnesi, in pratica, ci ricorda come eravamo solo poche decine di anni fa e come non dobbiamo mai più tornare a essere.

Domanda finale per Roberta Lippi

Hai creduto nel potenziale di questa storia fin dal primo momento. Cosa ti ha fatto capire che la proposta di Pasquale ed Elisabetta sarebbe stata perfetta per una serie podcast? Cosa vorresti dire a chi si appresta ad ascoltarla?


La struttura che Elisabetta e Pasquale avevano dato al loro lavoro era perfetta per una docu-serie, ma c'era un problema: l'argomento era delicato e brutale e in più non avevamo abbastanza archivio video per poter raccontare in modo completo la storia. Gli autori però avevano tanto altro: le voci dei testimoni, i radiogiornali, e il loro inarrestabile desiderio di spingersi a ricomporre questo puzzle, sempre e comunque, anche durante una pandemia che ha inevitabilmente fermato "fisicamente" le loro ricerche. L'audio era la soluzione perfetta. Oltretutto potevamo raccontare una storia atroce, senza cadere nella morbosità dei dettagli e questo avrebbe aiutato anche l'ascolto del pubblico. Proprio per questo, a chi si appresta ad ascoltarla dico: non pensate sia una storia del passato. Ascoltatela immaginandovi lì, proprio come hanno fatto Pasquale ed Elisabetta. Vivetela sulla pelle, solo così riuscirete a capire quanto è stato importante cambiare paradigma e quanto ancora c'è da fare oggi per occuparci correttamente di salute mentale.

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